Guerra di Jugoslavia, il caso Karadzic

Il 19 giugno del 1945 nasceva a Petnjica (nell’attuale Montenegro) Radovan Karadzic, Presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina e passato alla storia quale uno dei più feroci criminali di guerra che abbia agito nel contesto del conflitto che ha devastato l’ex Jugoslavia negli anni’90.

Cogliamo questa ricorrenza per parlare della storica sentenza del Tribunale Penale Internazionale per l’ex Jugoslavia che lo ha riguardato, in quanto tale decisione risulta sicuramente un fondamentale passaggio giurisprudenziale per quanto concerne lo sviluppo del concetto di Joint Criminal Enterprise. Come sappiamo, secondo questa dottrina è ben possibile incriminare tutti i membri di un gruppo organizzato per i crimini commessi da questo gruppo, senza che sia per ciò necessario che tutti i componenti dell’organizzazione in parola abbiano commesso materialmente i fatti. Dunque l’incriminazione potrà scaturire una volta che i giudici abbiano trovato soddisfacente la prova riguardo all’adesione all’intento criminale e al contributo, di qualsiasi natura esso sia (prescindendo pertanto dall’atto fisico), offerto alla realizzazione dell’intento stesso.

Radovan Karadzic, leader politico della Republika Srpska dal 1992 al 1996, è stato ritenuto responsabile dei crimini commessi dalle forze militari serbe proprio grazie all’applicazione da parte dell’organo giudicante dell’Aja del principio della Joint Criminal Enterprise, cui d’ora in poi ci riferiremo come JCE. Nello specifico, i capi di accusa sono stati categorizzati in base ai differenti contesti in cui le forze serbe si sono mosse durante il conflitto: Overarching JCE, afferente all’obiettivo della rimozione permanente dei bosniaci-musulmani e dei bosniaci-croati dai territori rivendicati dalla Republika Srpska; Sarajevo JCE, correlata ai frequenti attacchi rivolti alle popolazioni civili di Sarajevo; Hostages JCE, riguardante la pratica di presa di ostaggi ai danni di membri delle Nazioni Unite; Srebrenica JCE, concernente il massacro avvenuto nella omonima cittadina nei confronti dei bosniaci-musulmani ivi presenti.

Ora, senza scendere troppo nel dettaglio andando ad analizzare ciascun capo di accusa, ci impegneremo nel presente lavoro ad individuare, grazie al dispositivo e alle motivazioni contenute nella sentenza conclusiva del caso Karadzic, quelli che sono i tratti salienti della disciplina della JCE, riservandoci la possibilità di focalizzare particolarmente la nostra attenzione su quei passi che potrebbero rilevarsi fondamentali ai fini della seguente trattazione.

Prima di iniziare, è importante ribadire la notevole rilevanza di questa decisione, dal momento che l’imputato ricopriva, come precedentemente accennato, un ruolo apicale del tessuto politico della Republika Srpska, anziché quello meramente militare.



La Corte, a mio avviso, ha dimostrato un’invidiabile lucidità e precisione nell’esposizione degli elementi che giustificano la riconducibilità dei crimini giudicati al disegno complessivo architettato dall’imputato, sottolineando l’impatto da quest’ultimo avuto sulle condotte degli esecutori materiali, in ragione del controllo e dell’influenza esercitati da Karadzic quale organo politico di vertice.

Da ciò consegue la logica conclusione che, anche qualora non fosse concretamente riscontrabile un ordine impartito dall’imputato alle truppe, appare ad ogni modo legittimo condannare Karadzic ogniqualvolta sia chiaro che quest’ultimo, attraverso gli strumenti di indirizzo di cui disponeva al tempo dei fatti, abbia contribuito, in termini anche di mera agevolazione, al compimento di tali crimini.

Avendo così secondo me individuato con successo l’actus reus, bisogna ora effettuare un’indagine sull’altro elemento richiesto per l’incriminazione, ossia la mens rea. Anche a questo riguardo i giudici sono partiti dal ruolo ricoperto dall’imputato, utilizzandolo come inconfutabile indizio di perpetua conoscenza degli avvenimenti in questione, non mancando essi di sottolineare le numerose informazioni che i generali fornivano su base quotidiana, sia oralmente sia attraverso written reports, al sig. Karadzic.

Pertanto, avendo provato che l’imputato fosse effettivamente conscio di quanto stesse accadendo, siamo del parere che la Corte sia al contempo riuscita a dimostrare la sussistenza dell’elemento psicologico sopramenzionato, risultando palese che l’imputato abbia sin dall’inizio condiviso l’intento criminale. Inoltre, tenendo in considerazione il fatto che Karadzic avrebbe potuto utilizzare in un secondo momento i suoi poteri per prevenire o quantomeno punire la perpetrazione di questi crimini, appare altrettanto evidente che l’imputato abbia appoggiato tale intento fino al momento conclusivo degli eventi.

A questo proposito ritengo molto significativo il passaggio della pronuncia in cui l’organo decidente afferma che il funzionamento discriminatorio (“with a lack of attention to crimes committed against non-Serbs”) del sistema giudiziario del luogo, all’interno del quale figuravano anche le corti militari istituite proprio dall’accusato, hanno avuto come conseguenza quella di incoraggiare e facilitare, grazie ad un processo di legittimazione de facto aggiunge chi scrive, la commissione dei crimini rientranti nell’oggetto della JCE.

Inoltre, ad avere lo stesso effetto di agevolazione nei confronti di tali condotte criminose sono state anche le non rare dichiarazioni con cui Karadzic negava la realtà dei fatti di cui era invece a conoscenza. Infatti, risulta di facile intuizione come la consapevolezza che un capo politico metta sotto il tappeto le atrocità compiute dai militari funga da vera e propria autorizzazione affinchè questi ultimi continuino a ripetere le stesse condotte in futuro.

Per quanto concerne nello specifico la Overarching JCE, i giudici concludono che i violenti crimini perpetrati nel contesto dell’attuazione del piano comune condiviso dall’imputato erano dallo stesso prevedibili, date le circostanze del caso, tra cui la già ricordata atmosfera di impunità. Grazie a questa asserzione, la Corte si pronuncia nel senso della sussistenza del dolo eventuale, ossia dell’accettazione del rischio che i soldati si sarebbero resi protagonisti dei violenti crimini elencati nei confronti della popolazione non serba.

Così, in questo caso, la Corte ha accertato la responsabilità dell’imputato anche per quei crimini che, pur non facendo parte del disegno criminale, rientravano comunque nel prevedibile corso degli eventi. Per quanto questo sia l’aspetto più controverso del principio della JCE, dal momento che non è sempre fattibile accertare aldilà di ogni ragionevole dubbio la sussistenza del dolo eventuale nel caso di condotte messe in atto da soggetti terzi, sono dell’idea che gli elementi su cui la decisione si fonda sono così limpidi e netti da allontanare ogni perplessità circa la possibilità in capo al sig. Karadzic di immaginare le violenze cui le etnie non serbe sarebbero state sottoposte.

Tuttavia, tenendo sempre a mente che la nostra materia non può prescindere dal rispetto degli insegnamenti fondamentali provenienti dalla scienza penalistica, comprendo che alcuni possano nutrire qualche legittimo dubbio circa la corretta applicazione del dolo eventuale in casi analoghi a questo, in cui le condotte ex ante prevedibili e accettate sono più di una. In effetti risulta più complicato accertare un tale nesso psicologico nel momento in cui i crimini effettivamente perpetrati sono molteplici e differenti l’uno dall’altro, correndo dunque il rischio che dietro alla maschera del dolo indiretto si celi il volto della responsabilità oggettiva.

Nonostante ciò, anche alla luce di queste rispettabili tesi, risulta doveroso rinnovare la mia fiducia nei confronti dell’operato della Corte. Sono fermamente convinto che, pur ammettendo la diversità materiale delle condotte attuate- deportazioni, omicidi e stupri per esempio-, il contesto specifico in cui questi crimini si sono poi effettivamente verificati era tale da far presupporre la rappresentazione mentale di ciascuno dei crimini.

A sostegno di questa posizione vi è anche un sano spirito di pragmatismo. In effetti, in un ambito di conflitto come quello in parola, in cui disordine e disumanità la fanno da padroni, risulterebbe praticamente impossibile restringere l’applicazione del dolo eventuale alla commissione da parte di terzi di un solo tipo di crimine o di quelli del tutto omogenei. Così, al fine di non far perdere troppo valore alla terza caratterizzazione della mens rea all’interno della dottrina della JCE, appare necessario accettare che il dolo eventuale possa abbracciare condotte anche molto disparate tra loro, a condizione ovviamente che l’analisi della situazione permetta l’accertamento della prefigurazione della commissione di gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Poi, sempre a mio avviso, le modalità specifiche con cui queste violenze si concretizzano nella realtà sono molto spesso dovute alla contingenza, igitur non è così fondamentale soffermarsi su di esse.

In conclusione, valutando la pronuncia a trecentosessanta gradi, ritengo che questa sentenza rappresenti un enorme passo avanti nella messa a fuoco della responsabilità dei membri che rivestono ruoli apicali in una Joint Criminal Enterprise. Mettendo a confronto il contenuto di questa pronuncia con l’ultimo paragrafo dell’articolo 6 dello Statuto del Tribunale di Norimberga, nella parte in cui vengono determinati i presupposti della responsabilità dei dirigenti, organizzatori, complici e istigatori, noto personalmente nella sentenza Karadzic un allargamento della sfera di incriminazione dei vertici, in questo caso addirittura politici.

Infatti, la disposizione letterale dell’articolo 6 menziona espressamente le condotte di elaborazione ed esecuzione, le quali implicano entrambe una connotazione attiva dei comportamenti che possono far sorgere la responsabilità personale. Condotta attiva non è assolutamente sinonimo di attuazione fisica e materiale, ciononostante penso che, affinchè qualcuno potesse essere condannato sulla base dell’articolo 6 e in conformità al principio di tassatività, era necessario che quel soggetto avesse partecipato attivamente al piano concertato o all’intesa criminosa.

Al contrario, i giudici dell’Aja non hanno mancato di sottolineare come anche condotte non propriamente attive, quali semplici dichiarazioni false o lacune nel sistema giudiziario, possano assurgere ad elementi idonei a caratterizzare il contributo alla realizzazione del piano.

Pertanto, grazie all’espansione appena citata, sarà più facile ora incriminare anche vertici politici, i quali quasi mai partecipano attivamente alle operazioni militari, ma non per questo non possono essere dichiarati responsabili, dal momento che spesso e volentieri nelle loro funzioni è ricompresa la possibilità di indirizzare le azioni belliche in modo tale da scongiurarne il contrasto con le norme di diritto pattizio e consuetudinario.

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