Clima e domanda di asilo

Sono ormai alcuni decenni che il costante peggioramento delle condizioni climatiche è uno dei temi più caldi e più discussi dai media e dalla popolazione in generale. Negli ultimi anni si così accavallate numerose riforme legislative, a livello sia nazionale che internazionale, volte ad incoraggiare comportamenti ed iniziative più virtuosi nei confronti dell’ambiente da parte della generalità dei consociati.

Nonostante diversi progetti ecosostenibili attuati un po’ dappertutto in giro per il mondo, la situazione complessiva appare più che mai drammatica e in procinto di crollare ulteriormente.

Preso atto di questa triste realtà, lo scorso gennaio il Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite ha sancito un’importante novità: d’ora in poi infatti, gli apparati attraverso cui gli Stati esaminano le domande di asilo pervenute dovranno prendere in considerazione le violazioni dei diritti umani sofferte dai richiedenti a causa dei cambiamenti climatici.

Sappiamo che generalmente la richiesta di asilo può essere avanzata da colui che ha subito una lesione dei propri diritti in seguito ad una persecuzione o che potrebbe potenzialmente subire la stessa in caso di ritorno in patria.
Appare pertanto evidente quanto la decisione del Comitato estenda la tutela ben oltre i limiti antecedenti, in quanto impone di garantire il riconoscimento dello status di rifugiato a tutti coloro che nella propria nazione di origine, a causa delle difficili condizioni ambientali di quel luogo, rischiano di morire o comunque non hanno la possibilità di condurre un’esistenza dignitosa, la quale rientra ovviamente nel più ampio concetto di “diritto alla vita”.

La pronuncia del Comitato è dovuta all’istanza di Ioane Teitiota, un uomo originario di un arcipelago situato nel mezzo dell’Oceano Pacifico chiamato Kiribati, il quale aveva presentato domanda di asilo alla Nuova Zelanda e questa l’aveva rigettata nel settembre del 2015.

Il signor Teitiota aveva lasciato la sua casa di Kiribati nel 2007 ed era giunto in Nuova Zelanda insieme a sua moglie, con la quale ebbe poi tre figli, nati tutti in Nuova Zelanda. Allo scadere del permesso di soggiorno, l’uomo aveva presentato la richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato. Tuttavia come già anticipato, la Commissione neozelandese responsabile dell’esame della sua domanda aveva deciso di non concedergli asilo. Così Ioane decise di presentare appello contro questo rigetto per violazione della “Convenzione sui diritti civili e politici”, il trattato adottato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Quindi arriviamo così al giudizio conclusivo. Il Comitato, nonostante abbia rigettato l’istanza avanzata da Ioane Teitiota, poiché il ritorno a Kiribati avrebbe certamente causato una diminuzione del benessere dell’uomo ma non in modo tale da mettere a repentaglio la sua vita, ha comunque introdotto il principio secondo cui lo Stato destinatario della richiesta non può declinarla qualora le condizioni climatiche del paese d’origine del richiedente fossero tali da costituire un rischio serio e concreto per la sua sopravvivenza.

Questa pronuncia ci fa comprendere quanto il problema legato all’ambiente possa incrementare i già di per sé imponenti movimenti migratori attualmente in corso su tutto il nostro pianeta. Se “l’immigrazione climatica” producesse davvero ulteriori flussi di persone che si trasferiscono in massa da una zona all’altra della Terra, allora la gestione del fenomeno migratorio diventerebbe pressocchè impossibile.

Dunque, questo campanello d’allarme deve fungere come incentivo (come se non ne avessimo già abbastanza) per cambiare le nostre abitudini, al fine di ridurre l’impatto negativo delle nostre azioni sull’ambiente e la natura circostante.

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