Bangladesh, l’industria tessile al collasso

Da tempo è ormai noto il devastante impatto che l’emergenza Coronavirus ha avuto e continuerà ad avere nel futuro sull’economia internazionale. Sono infatti moltissimi, dai lavoratori autonomi alle grandi imprese, i soggetti che stanno accusando i forti colpi derivanti dalle improvvise riduzioni di produzioni e consumi dovute al lockdown imposto dai governi di quasi tutto il pianeta.

Così, per quanto questa crisi possa definirsi “democratica” (in quanto riguarda tutti le nazioni), è ovviamente naturale che le difficoltà siano ben più accentuate nelle zone in cui la situazione economica è già di per sé debole e incerta, poiché fondata su basi poco solide e affidabili.

In questa ultima categoria rientrano senza dubbio gran parte dei paesi meno sviluppati dell’Asia, dal momento che il PIL di questi ultimi viene parecchio influenzato dalle esportazioni dei propri prodotti in giro per il mondo, verso l’Europa e gli Stati Uniti soprattutto.

A questo proposito dunque, affronteremo oggi la delicata situazione del Bangladesh, ponendo una particolare attenzione sui risvolti drammatici che la crisi da Coronavirus sta assumendo nell’ambito dei diritti dei lavoratori.

Il Bangladesh è uno dei maggiori produttori ed esportatori di capi di abbigliamento in tutto il mondo e, di conseguenza, l’industria tessile è un ambiente che fornisce lavoro a moltissimi uomini e donne -se non bambini, nei casi più estremi- del luogo.

Tuttavia all’enormità del numero delle persone impiegate in questa campo non segue una proporzionale cura della tutela dei lavoratori. Sono infatti all’ordine del giorno gli episodi di vero e proprio sfruttamento della manodopera, con i datori di lavoro che impongono turni insostenibili per durata e ritmi produttivi, al che si sommano le paghe quasi sempre irrisorie con cui gli impiegati vengono retribuiti.

Tale contesto viene reso ancor più critico nel periodo storico attuale: come già anticipato, lo stallo economico che si è venuto a creare negli ultimi mesi ha determinato un crollo repentino della curva della domanda dei capi di abbigliamento, cagionando conseguenzialmente la diminuzione dell’offerta, e quindi della produzione.

Per questa ragione, sempre più datori di lavoro stanno facendo fronte a questi flussi del mercato con le uniche misure concepibili in un paese in cui i diritti dei lavoratori appartengono più alla fantasia che alla realtà: licenziamenti ad nutum (senza preavviso) e bruschi tagli degli stipendi.

Si contano così addirittura diverse migliaia di perdite del posto di lavoro e dunque altrettante famiglie messe in ginocchio e senza prospettiva di ripresa.

È vero infatti che nelle ultime settimane le restrizioni stanno venendo sempre più allentate e la freccia delle importazioni dei paesi occidentali (e quindi anche delle esportazioni del Bangladesh) inizierà a ripuntare verso l’alto, ma è al contempo vero che le ingenti perdite registrate dall’industria tessile del paese non potranno che peggiorare ulteriormente la posizione dei dipendenti.

È essenziale pertanto che, oggi più che mai, vengano attivati efficacemente i meccanismi di controllo sulla tutela dei diritti umani, all’interno dei quali rientrano anche quelli economici e sociali, fiancheggiando questi soggetti così deboli e così indifesi nella lotta contro l’arbitrarietà con cui i grandi proprietari privano quotidianamente uomini e donne della dignità e della sicurezza sul posto di lavoro e del diritto alla continuità retributiva.

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