Il 27 gennaio in Polonia: legge contro l’aborto e accuse di diffamazione per ricerche sull’Olocausto

È successo di tutto nella giornata di ieri in Polonia, in una Giornata della Memoria che ha recapitato notizie sconfortanti, se consideriamo il sentimento liberale e democratico a cui si associa usualmente tale giornata, scomodando anche tematiche proprio attinenti all’argomento Shoah, con le accuse di diffamazione rivolte a un ricercatore che stava lavorando sulla complicità da parte di un sindaco polacco nell’uccisione di 22 ebrei durante gli anni dell’occupazione nazista.

Andiamo con ordine.

La prima notizia riguarda una sentenza della Corte Costituzionale polacca risalente allo scorso ottobre, nella quale veniva concertata la legittimità di una legge restrittiva dell’aborto che abolirà del tutto, nella pratica, le possibilità di abortire. La legge in oggetto restringeva le ipotesi di aborto, già molto stringenti, alle uniche ipotesi di gravidanze derivate da stupro e di gravidanza arrecante un pericolo per la vita della donna, eliminando invece la possibilità di abortire in caso di abnormità fetali. Le due ipotesi di gravidanza rimanenti lecite sono state alla base di solamente 26 casi di aborto, rispetto ai 1.100 episodi dell’anno precedente e ciò spiega come il risultato sia, de facto, un divieto assoluto.

La sentenza costituzionale ha però acquisito effetto solamente ieri, dopo mesi di proteste, e tale entrata in vigore ha esacerbato il fiammeggiante sentimento di autodeterminazione che ha portato in strade migliaia di persone, con prevalenza femminile, a protestare per il diritto a decidere sul proprio corpo. Parole di condanna sono arrivate anche da alcune cariche politiche polacche, quali il sindaco di Varsavia, che ha descritto il provvedimento come una scelta che “non solo lede i diritti dei cittadini, ma è anche contraria al loro volere”. Proprio a Varsavia, i manifestanti hanno marciato al canto di “I Will Survive” fino all’ingresso della sede del partito attualmente al governo.

Il diritto all’aborto, sebbene non formalmente riconosciuto della Convenzione Europea dei Diritti Umani, costituisce un ben affermato traguardo della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione della donna, della quale la Polonia costituisce uno dei primissimi paesi firmatari. Dunque, torna attuale il dibattito sull’efficacia di questi strumenti di diritto internazionale, specie con riferimento alle misure adottabili affinché vengano rispettate le previsioni all’interno di essi.

Per quanto riguarda la seconda notizia, riguarda un’altra decisione proveniente dal sistema giudiziario polacco, la cui indipendenza è da anni in forte pericolo (di tal argomento abbiamo parlato qui). Sono cominciati ieri i procedimenti penali per le accuse di diffamazione avviati dalla nipote di Edward Malinowski, sindaco ai tempi della Seconda Guerra Mondiale della città di Malinowo, poco distante da Varsavia. La causa è che Malinowski, morto più di trent’anni fa, risulterebbe aver collaborato all’assassinio di 22 ebrei, secondo la revisione dello storico Jan Grabowski di alcune memorie provenienti da un processo dal quale tale sindaco era stato assolto.

A concorrere con l’accusa di diffamazione alla memoria del nonno dell’accusante, tuttavia, vi è il rischio per Grabowski di aver offeso lo Stato, essendo incorso nel reato che prevede il divieto di accusare la Polonia di collaborazione dell’Olocausto nazista. Tale provvedimento legislativo, che aveva cagionato, ragionevolmente, l’alzata di più di qualche sopracciglio al tempo della ratificazione, potrebbe entrare in effetto proprio con riferimento a Grabowski, che con la propria analisi critica del processo a Malinowski viene accusato non solo di star “profanando” la memoria del defunto sindaco, ma anche di star diffamando la Polonia, trasposta nella figura del fu pubblico ufficiale.

Il caso porta luce sull’importante questione del reato di diffamazione, in vigore in moltissimi paesi, ma un potenziale ostacolo naturale alla libertà d’espressione, che trova giustificazione in alcuni episodi estremi, ma che spesso si presta all’abuso. Il fulcro della discussione in oggetto, poi, è che tale libertà viene limitata in nome della tutela di un concetto fuoridatato e potenzialmente pericoloso, come quello dell’onore. Le Nazioni Unite, per mezzo della Commissione per i Diritti Umani, si erano espresse, nel Commento Generale n.34 sulla libertà d’espressione, riguardo all’ambizione di depenalizzare il reato di diffamazione in tutto il mondo.

In questo contesto, appare certamente una limitazione notevole ad un diritto fondamentale quella che emerge dalle corti polacche, le quali si spingono sino a punire una ricerca di tipo accademico, rivangando memorie del famoso caso Perincek v Svizzera, nel quale la Corte Europea dei Diritti Umani aveva difeso il diritto d’espressione di Perincek proprio in ragione del contributo accademico ad una questione potenzialmente esplosiva, come il genocidio armeno. È curioso tuttavia come, in quel caso, le potenziali limitazioni nascessero dalla necessità di osteggiare affermazioni negazioniste, volte a smentire la qualificazione giuridica di genocidio, mentre in questo caso nascano dal proposito contrario, quello di negare l’innocenza rispetto ad episodi storici legati al genocidio.

Al netto di quest’analisi, ad ogni modo, occorre intraprendere dei seri ragionamenti in relazione alla deriva che sta intraprendendo la Polonia e si rinnova anche la questione del quanto ancora l’Europa possa tacitamente avallare determinati comportamenti, che sempre più spesso stan prendendo la forma di veri e propri provvedimenti legislativi.

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